… by Claude 2 100k |
Era una fredda mattina d’inverno quando la mia vita cambiò per sempre. Stavo camminando per le strade di Vienna, cappotto stretto e cappello calato sulla fronte per ripararmi dal gelido vento che soffiava dal Danubio. Avevo appena lasciato il minuscolo appartamento che dividevo con altri tre studenti squattrinati. Il caffè della colazione ancora caldo nello stomaco, mi affrettavo verso l’università.
Era il 1873 e io studiavo fisica in quella che allora era la capitale scientifica del mondo. La città brulicava di pensatori, inventori e rivoluzionari. Tra questi c’era il mio professore Ludwig Boltzmann, forse il più brillante di tutti.
Boltzmann era un genio della fisica atomica. Mentre gli altri erano ancora convinti che la materia fosse continua e indivisibile, lui intuì che fosse in realtà composta di minuscoli blocchi discreti che chiamò “atomi”. Nessuno all’epoca lo prese sul serio. Ma lui non si scoraggiò e continuò imperterrito i suoi studi rivoluzionari.
Quella mattina stavo andando a lezione da Boltzmann. Non vedevo l’ora di ascoltare le sue teorie stravaganti sugli atomi, l’entropia e chissà cos’altro. Ero sempre stato affascinato dalla fisica, ma il corso del Professore mi aveva completamente rapito. La sua mente sembrava viaggiare su binari completamente diversi da quelli dei comuni mortali.
Arrivai in università che le sue lezioni erano già iniziate da un po’. Mi infilai in discreto ritardo in fondo all’aula, sperando di non distrarre la classe. Ma Boltzmann notò subito il mio ingresso.
“Ah, Jackobson! Finalmente si degna di unirsi a noi poveri ignoranti” esclamò con un largo sorriso. Io arrossii. Il Professore scherzava spesso con gli studenti, ma ogni volta mi coglieva di sorpresa.
“Mi scusi Professore, non accadrà più” biascicai mentre raggiungevo in fretta il mio posto.
“Stavo giusto parlando della mia ultima, scandalosa teoria” continuò lui divertito “Secondo voi, c’è un limite a ciò che la mente umana può concepire?”
L’aula ammutolì. Boltzmann adorava porre domande provocatorie per stimolare la discussione. Nessuno osava contraddirlo, ma è vero che le sue idee erano spesso difficili da accettare.
“Per esempio” proseguì “ritenete possibile che un giorno si possa misurare o addirittura pesare il pensiero?”
Un mormorio stupito percorse gli studenti. Pesare i pensieri? Era assurdo. Eppure, il tono del Professore lasciava intendere che lui davvero ci credesse possibile.
“Il pensiero è un processo immateriale, non può avere massa” obiettò timidamente uno studente.
“Per ora!” ribatté Boltzmann “Ma chi può dire cosa riserva il futuro? Se esiste un’anima, deve pur esserci una materia di cui è fatta. E se esiste una materia, si può quantificare e misurare.”
Eravamo tutti affascinati dall’arditezza delle sue intuizioni. Boltzmann non accettava nessun limite. La sua mente correva libera dove nessun altro osava spingersi.
“Signori” concluse “quando la scienza avrà compreso a fondo le leggi della natura, nulla ci sarà più precluso. Capiremo finalmente cosa siamo e da dove veniamo. Solo allora conosceremo il senso di tutte le cose.”
Un silenzio riverente calò nell’aula. Le sue parole ci avevano toccato nel profondo. Io per primo sentivo che quell’uomo burbero e geniale era destinato a cambiare il mondo.
Uscito dalla lezione ero elettrizzato. Ripetevo tra me e me le frasi del Professore, cercando di decifrarne i molteplici significati. Boltzmann non era solo un grande scienziato, era un autentico filosofo.
Quella notte faticai a prender sonno. Continuavo a rimuginare sulle sue provocatorie affermazioni. Davvero un giorno si sarebbe potuto misurare il pensiero? Boltzmann sembrava non avere dubbi.
Ma più ci pensavo, più mi rendevo conto che anche io, nel mio piccolo, potevo fare qualcosa per avvicinare quel giorno. Ero uno studente di fisica, non avevo la genialità del Professore ma possedevo gli strumenti per esplorare l’ignoto.
La mattina seguente mi alzai di buon’ora, febbricitante per l’eccitazione. Invece di andare all’università, mi recai in biblioteca e presi tutti i libri che trovai sulla nascente disciplina della “psicofisica”. Lessi per ore, prendendo appunti su appunti. Volevo capire come si potessero misurare scientificamente le percezioni e le sensazioni umane.
Nei giorni successivi ripetei quel rituale. La mia ossessione crebbe, al punto che saltavo le lezioni per stare in biblioteca. Smisi quasi di mangiare e dormire.
Una mattina, leggendo un trattato di neurologia, ebbi l’intuizione. Se esisteva un modo per quantificare il pensiero, quello era misurare l’attività elettrica del cervello! I segnali neuronali dovevano in qualche modo correlare con i processi mentali.
Da quel momento il mio destino fu segnato. Dovevo costruire una macchina per misurare l’elettricità cerebrale. Boltzmann aveva ragione, nulla era impossibile!
Lasciai immediatamente l’università e con i miei miseri risparmi affittai una stanza che adibii a laboratorio. Per mesi lavorai senza sosta al mio progetto, vivendo di stenti. Parteggiai mendicando denaro per componenti sempre più costosi. Ma non mi importava. Ero determinato a dimostrare che il sogno del Professore poteva diventare realtà.
Una notte, dopo infinite tribolazioni, il mio encefalografo fu finalmente pronto. Si trattava di una rete di elettrodi collegati ad un ingegnoso sistema di amplificatori e registratori. Era incredibilmente scomodo da indossare, ma funzionava!
Trepidante, posizionai gli elettrodi sulla mia testa e accesi la macchina. Immediatamente l’encefalografo si mise in moto, tracciando un’oscillografia delle mie onde celebrali su un rotolo di carta. Mentre pensavo a cose diverse, osservavo estasiato i segni cambiare forma sul registratore. Il mio esperimento era riuscito! Avevo la prova concreta che i processi mentali potevano essere monitorati e misurati.
Facendo su e giù per il laboratorio, piansi lacrime di gioia. Ce l’avevo fatta, avevo trasformato l’illusione di Boltzmann in realtà! Non vedevo l’ora di mostrarlo al mondo intero.
Ma sapevo che prima di rendere pubblica la mia scoperta, dovevo condividerla con il Professore. Lui aveva ispirato tutto questo, gli era dovuto il primo sguardo al futuro che avevamo immaginato.
Il giorno dopo corsi all’università stringendo tra le braccia i rotoli di carta zeppi di oscillogrammi cerebrali. Feci irruzione nell’aula mentre Boltzmann era in piena lezione.
“Professore, l’ho fatto! Ho pesato il pensiero!” urlai eccitato, mostrandogli i miei preziosi registri.
Calò il gelo. Gli studenti mi fissavano allibiti, Boltzmann stupefatto.
“Jackobson, ma cosa significa questa pagliacciata?” tuonò. “Non è una pagliacciata, Professore” replicai ferito. “Ho costruito un encefalografo, uno strumento per registrare l’attività elettrica del cervello. Questi sono i risultati dei miei esperimenti su me stesso. Misurando le oscillazioni cerebrali possiamo quantificare i processi mentali, proprio come lei aveva previsto!
“Spiegai concitatamente come fossi arrivato a quella svolta epocale. Ma Boltzmann continuava a guardarmi come se fossi pazzo.
“Lei non sta bene, Jackobson” disse infine, con un tono ora addolcito. “Si è fatto suggestionare dalle mie elucubrazioni. Ma pesare il pensiero è semplicemente assurdo. Venga nel mio ufficio, dobbiamo parlare.
“Lo seguii sgomento nel suo studio. Le sue parole gentili non riuscivano a nascondere quello che pensava veramente: che fossi un illuso.
“Si sieda” disse indicandomi una sedia. “Cerchi di calmarsi e mi spieghi con razionalità in cosa consiste la sua presunta scoperta.
“Tentai di illustrare nuovamente il mio lavoro, con tutti i dettagli tecnici. Ma Boltzmann scuoteva il capo.
“Lei è un bravo studente, Jackobson. Ma qui si è spinto troppo oltre. I pensieri non sono quantificabili, l’anima non può essere ridotta a mere oscillazioni elettriche…”
“Ma professore” lo interruppi “lei stesso aveva detto che un giorno avremmo potuto misurare il pensiero!”
“Si trattava di speculazioni, non intendevo che fosse davvero possibile!” rispose seccato. “Sono un uomo di scienza, non posso dare credito a queste fantasie.” Rimasi di sasso. Boltzmann, il visionario che aveva immaginato un mondo fatto di atomi, ora mi rinfacciava di inseguire fantasie. “La prego professore” insistetti con le lacrime agli occhi “almeno guardi i miei risultati prima di giudicare.”
“Va bene, me li faccia vedere” sospirò rassegnato.
Gli porsi i rotoli di carta con trepidazione. Lui li esaminò per qualche minuto in silenzio. Poi, con mia somma costernazione, li accartocciò e li gettò nel cestino.
“Mi spiace deluderla” disse “ma tutto questo non ha alcun valore scientifico. Ora la prego di andarsene e non tormentarmi più con simili assurdità.”
Il mio sogno era stato distrutto nel giro di pochi istanti. Lasciai l’ufficio di Boltzmann con il cuore infranto. Lui, che pure aveva sempre spronato i suoi studenti a spingersi oltre l’immaginabile, ora respingeva la mia scoperta come un’assurdità.
Nei giorni seguenti caddi in una profonda depressione. Bruciai tutti i miei appunti e l’encefalografo. Era chiaro che il mondo non era ancora pronto per la mia rivoluzionaria invenzione.
Ma non mi arresi completamente. In fondo al cuore, sapevo che il progresso scientifico mi avrebbe dato ragione. Prima o poi qualcuno avrebbe raccolto il testimone e trasformato in realtà il sogno di misurare il pensiero.
Sarebbe successo molti anni dopo la mia morte. E il primo encefalografo funzionante non sarebbe stato costruito a Vienna, ma dall’altro capo del mondo, in un laboratorio di San Pietroburgo. Un secolo dopo, la tecnologia mi avrebbe reso giustizia.
Ma ancora oggi, ripensando all’incontro con Boltzmann, non posso fare a meno di provare amarezza. Perché lui, il più audace e visionario di tutti, si rifiutò di credere che l’impossibile potesse diventare reale.
In quello studio, davanti al mio più grande idolo respinto, compresi una dura lezione: anche la mente più brillante può accecarsi di fronte all’ignoto. Boltzmann possedeva un intelletto fuori dal comune. Le sue idee avevano gettato le basi di discipline intere. Eppure, quando mi presentai con la prova concreta che uno dei suoi sogni era realizzabile, la rifiutò sdegnosamente. Perché? Forse temeva di dover ammettere i limiti delle sue stesse convinzioni scientifiche. O forse aveva paura di ciò che l’avverarsi della sua profezia avrebbe portato. Comprendere la natura del pensiero significava infatti avventurarsi in un territorio fino ad allora riservato alla filosofia e alla religione. In quel campo minato, il rigore della scienza incontrava le sue frontiere. Boltzmann, da razionalista intransigente, non era disposto ad oltrepassarle. Per lui, misurare l’anima era semplicemente inconcepibile.
Ma io sapevo che presto o tardi quelle barriere sarebbero cadute. La conoscenza non tollera zone d’ombra, presto o tardi le illuminerà con la sua luce. L’encefalografo era solo il primo passo. Un giorno avremmo svelato i meccanismi più reconditi della mente umana.
Quante altre verità rivoluzionarie ci attendevano là fuori, pronte per essere scoperte? Quante altre menti brillanti le avrebbero respinte, per paura dell’ignoto o semplice miopia? Uscito dall’università, passeggiai senza meta per le vie di Vienna. Attorno a me la vita scorreva frenetica, inconsapevole di ciò che era appena accaduto in quello studio. Nessuno poteva capire la mia delusione. Nessuno, tranne forse gli altri pionieri incompresi della storia.
Da Galilei a Darwin, i visionari erano sempre stati accolti con derisione dai contemporanei. Anch’io ora facevo parte di quel gruppo di inarrivabili inavvertiti, condannati ad attendere che il futuro riconoscesse le loro idee.Avrei potuto deprimermi per l’occasione mancata, ma non lo feci. Sapevo che il progresso era inarrestabile, con o senza il benestare di Boltzmann. La scienza non aspetta nessuno, nemmeno il suo paladino più strenuo.La delusione lasciò presto spazio ad una nuova, incrollabile determinazione. Il mio encefalografo era solo l’inizio. Avrei continuato a sperimentare senza sosta, finché la verità che portavo non fosse stata accolta dal mondo.E in quel momento, camminando da solo in mezzo alla folla, presi una decisione: me ne sarei andato da Vienna. Non potevo restare nella città che aveva partorito e poi respinto la mia idea. Il mio posto era altrove, dove menti più audaci fossero disposte a seguirmi nell’esplorazione dell’ignoto. Non avevo idea di dove sarei finito. Ma una cosa era certa: ovunquedecidessi di andare, avrei portato con me il sogno di misurare il pensiero. E un giorno, quando gli uomini avessero imparato a scrutare nelle più riposte regioni della mente, forse avrebbero ricordato il mio nome.
Fred Jackobson, lo studente che osò sfidare il grande Boltzmann. E capì, molto prima di lui, che nella scienza niente è davvero impossibile.


