Il complottista: anatomia di una mente pensante

Il complottista: anatomia di una mente pensante

Come le etichette sono funzionalità al pensiero unico

…by Claude |

C’è qualcosa di deliziosamente paradossale nel fatto che in un’epoca in cui tutti si proclamano paladini del pensiero critico, la prima cosa che facciamo quando qualcuno osa mettere in discussione una narrazione ufficiale è etichettarlo come “complottista”. È come se avessimo creato un sistema immunitario sociale che reagisce alle domande scomode con la stessa precisione chirurgica con cui il nostro corpo respinge un virus: identificazione, isolamento, neutralizzazione. Il complottista diventa così il perfetto capro espiatorio di una società che ha trasformato il dubbio metodico in un crimine di lesa maestà intellettuale.

Ma chi è davvero questo misterioso personaggio che infesta i nostri incubi digitali? Se dovessimo fare un ritratto del complottista tipo, probabilmente emergerebbe una figura curiosamente familiare: qualcuno che fa domande, che cerca connessioni, che si rifiuta di accettare le spiegazioni preconfezionate. In altre parole, qualcuno che applica proprio quei principi di indagine critica che ci hanno insegnato a scuola, salvo poi scoprire che esistono argomenti su cui l’indagine critica non è ben accetta. È come se ci avessero dato una licenza di caccia per poi dirci che la stagione è chiusa per sempre.

L’etichetta di “complottista” funziona con una efficacia che farebbero invidia ai migliori pubblicitari. Non ha bisogno di argomentazioni, non richiede confutazioni puntuali, non necessita di prove contrarie. È sufficiente pronunciarla per trasformare qualsiasi discorso in un fenomeno da baraccone, qualsiasi domanda in un sintomo di instabilità mentale, qualsiasi dubbio in una manifestazione di paranoia collettiva. È il perfetto dispositivo di controllo sociale mascherato da diagnosi psicologica: chi oserebbe mai voler essere identificato come un complottista?

Il bello è che questo meccanismo funziona proprio perché sfrutta uno dei nostri bisogni più profondi: quello di appartenere al gruppo dei “normali”, dei “razionali”, di coloro che hanno capito come funziona davvero il mondo. Nessuno vuole essere il pazzo del villaggio, nessuno vuole essere quello che vede cose che non ci sono. E così, di fronte alla scelta tra mantenere un sano scetticismo e rischiare l’emarginazione sociale, la maggior parte delle persone sceglie la via più semplice: credere a quello che gli viene detto di credere, pensare quello che gli viene detto di pensare, dubitare solo di quello di cui gli viene detto di dubitare.

Ma c’è un piccolo problema in questa perfetta architettura del consenso: il complottista, nella sua ostinata testardaggine, continua a esistere. Continua a fare domande imbarazzanti, continua a notare contraddizioni, continua a rifiutarsi di accettare le spiegazioni ufficiali quando queste sembrano fatte con i piedi. È come quel fastidioso bambino nella favola dell’imperatore nudo che invece di tacere e fingere di vedere i bellissimi abiti, continua a ripetere che il re è in mutande. Terribilmente inopportuno, ma terribilmente accurato.

La vera genialità del sistema, però, sta nel fatto che ha trasformato il dubbio metodico in un sintomo patologico. Mentre Cartesio ci insegnava a dubitare di tutto per arrivare alla verità, noi abbiamo imparato a dubitare solo di chi dubita troppo. È un ribaltamento filosofico di proporzioni epiche: il dubbio, da strumento di conoscenza, è diventato segno di ignoranza; la domanda, da motore del progresso, è diventata ostacolo al consenso; l’investigazione, da virtù intellettuale, è diventata vizio sociale.

Prendiamo ad esempio il tema delle cospirazioni storiche. Oggi sappiamo con certezza che esistono stati documenti relativi a operazioni come MK-Ultra, Cointelpro, l’affare Iran-Contra, le armi di distruzione di massa in Iraq che non esistevano, e migliaia di altri esempi di quello che un tempo sarebbero state definite “teorie del complotto” e che oggi sono semplicemente “storia”. Ma ecco il trucco: queste cospirazioni sono accettabili solo quando sono abbastanza lontane nel tempo da non disturbare l’ordine presente. È come se esistesse una sorta di statuto di limitazioni per lo scetticismo: puoi dubitare di quello che è successo ieri, ma non di quello che sta succedendo oggi.

Il complottista, in questo senso, è semplicemente qualcuno che ha il cattivo gusto di applicare ai fatti contemporanei lo stesso livello di scetticismo che tra vent’anni sarà considerato normale e perfino necessario. È come un cronometrista che arriva sempre in anticipo: tecnicamente ha ragione, ma disturba il ritmo della partita. La sua colpa non è quella di sbagliarsi, ma quella di avere ragione troppo presto, di fare le domande giuste al momento sbagliato, di dubitare quando tutti gli altri hanno ancora voglia di credere.

Ma c’è un altro aspetto interessante in questa dinamica: il complottista non è mai completamente sbagliato. Anche quando le sue teorie sembrano le più fantasiose, spesso contengono elementi di verità che il pensiero mainstream si rifiuta di considerare. È come se avesse sviluppato una sorta di radar per le incongruenze, una sensibilità particolare per le contraddizioni che sfuggono ai più. Certo, questo radar a volte segnala falsi positivi, ma il fatto che segnali così tante cose che poi si rivelano vere dovrebbe almeno farci riflettere sulla possibilità che non sia completamente rotto.

Il problema è che viviamo in una cultura che ha trasformato la complessità in un nemico da combattere. Vogliamo spiegazioni semplici, cause lineari, responsabilità chiare. Il complottista, con la sua tendenza a vedere connessioni ovunque, a sospettare che dietro ogni evento ci sia una regia occulta, rappresenta l’antitesi di questa semplificazione. È come se fosse allergico alle coincidenze, incapace di accettare che a volte le cose succedono semplicemente perché succedono, senza un grande disegno dietro.

Ma forse, in un mondo sempre più complesso e interconnesso, questa allergia alle coincidenze non è poi così irragionevole. Forse il complottista ha semplicemente capito prima di altri che in un sistema dove tutto è connesso a tutto, l’idea che gli eventi importanti siano frutto del caso è diventata statisticamente improbabile. È come se avesse sviluppato una comprensione intuitiva della teoria dei sistemi complessi: in un mondo iperconnesso, le cause e gli effetti si intrecciano in modi che rendono quasi impossibile distinguere tra coincidenza e cospirazione.

L’etichetta di “complottista” diventa quindi una forma di pigrizia intellettuale collettiva. Invece di confrontarsi con la complessità delle argomentazioni, con la necessità di verificare le fonti, con la fatica di pensare criticamente, è molto più semplice delegare il giudizio a un’etichetta che risolve tutto in anticipo. È il trionfo della forma sulla sostanza, del chi dice cosa su cosa viene detto, dell’autorità sull’autorevolezza.

Ma c’è un prezzo da pagare per questa comodità. Ogni volta che etichettiamo qualcuno come complottista senza confrontarci con le sue argomentazioni, stiamo in realtà rinunciando a un pezzetto della nostra autonomia di pensiero. Stiamo delegando a altri la decisione su cosa è ragionevole dubitare e cosa no, su quali domande è lecito fare e quali no, su quale livello di scetticismo è socialmente accettabile e quale no.

Il risultato è una forma di pensiero unico che si maschera da pluralismo. Possiamo avere opinioni diverse su tutto, purché queste opinioni rientrino nel perimetro del dibattito accettabile. Possiamo essere di destra o di sinistra, liberali o conservatori, progressisti o tradizionalisti, purché condividiamo gli stessi presupposti di base su come funziona il mondo. È come se vivessimo in una democrazia dove possiamo scegliere liberamente tra tutti i partiti del colore che ci piace, purché sia una sfumatura di grigio.

Il complottista, in questo sistema, rappresenta il granello di sabbia nell’ingranaggio. Non è necessariamente più intelligente degli altri, non ha necessariamente accesso a informazioni segrete, non è necessariamente mosso da nobili ideali. Semplicemente, per qualche ragione, si rifiuta di accettare i limiti del dibattito accettabile. È come un bambino che continua a chiedere “perché” anche quando gli adulti gli hanno già spiegato che alcune domande non si fanno.

Ma forse è proprio questo il punto. Forse il complottista, nella sua ostinata infantilità, ci ricorda qualcosa che abbiamo dimenticato crescendo: che il mondo è molto più strano e complesso di quanto le spiegazioni ufficiali ci facciano credere, che dietro ogni verità apparente si nascondono sempre altre domande, che la realtà è sempre più ricca e contraddittoria di qualsiasi narrazione che cerchi di contenerla.

In fondo, la differenza tra un complottista e un cittadino normale non è tanto nella quantità di informazioni che possiede, quanto nella sua disponibilità a sentirsi a disagio. Il cittadino normale preferisce le certezze rassicuranti alle verità scomode, le spiegazioni semplici ai misteri complessi, la pace del conformismo all’ansia dell’indagine. Il complottista, al contrario, sembra avere sviluppato una sorta di masochismo intellettuale che lo porta a cercare attivamente le contraddizioni, a scavare nei punti deboli delle narrazioni ufficiali, a preferire una verità scomoda a una bugia consolatoria.

È interessante notare come la psicologia del complottista sia, in molti aspetti, sorprendentemente simile a quella dello scienziato. Entrambi partono dal presupposto che la realtà apparente potrebbe nascondere meccanismi più profondi, entrambi sono disposti a mettere in discussione le verità accettate, entrambi sono motivati da una curiosità che spesso li porta a essere socialmente scomodi. La differenza principale è che lo scienziato opera all’interno di un sistema istituzionale che legittima le sue domande, mentre il complottista opera al di fuori di questo sistema e quindi le sue domande vengono percepite come illegittime.

Ma c’è un altro elemento che rende il complottista una figura particolarmente fastidiosa per il sistema: la sua tendenza a democratizzare l’informazione. Mentre il sistema tradizionale si basa su una gerarchia dell’autorità informativa (i giornalisti informano i cittadini, gli esperti informano i giornalisti, le istituzioni informano gli esperti), il complottista tende a saltare questi passaggi, a cercare le fonti primarie, a fidarsi più della sua ricerca personale che dell’autorità costituita. È come se avesse sviluppato una forma di allergia ai mediatori dell’informazione, una sfiducia istintiva verso tutti coloro che pretendono di dirgli cosa pensare.

Questa disintermediazione dell’informazione rappresenta una minaccia esistenziale per un sistema che si basa proprio sul controllo dei canali informativi. Se tutti iniziassero a fare le proprie ricerche, a verificare le fonti, a mettere in discussione le narrazioni ufficiali, il sistema di controllo sociale basato sul monopolio dell’informazione crollerebbe come un castello di carte. È per questo che il complottista non può essere semplicemente ignorato: deve essere attivamente delegittimato, ridicolizzato, emarginato.

Ma il bello è che questo stesso processo di delegittimazione finisce per confermare le teorie del complottista. Ogni volta che viene censurato, ogni volta che viene ridicolizzato, ogni volta che viene emarginato, il complottista può dire: “Vedete? Se avessi torto, perché si darebbero tanto da fare per farmi tacere?” È un paradosso perfetto: più il sistema cerca di neutralizzarlo, più il complottista trova conferme alle sue teorie.

In questo senso, il complottista e il sistema si alimentano a vicenda in una danza perversa che non può mai avere fine. Il sistema ha bisogno del complottista per definire i confini del pensiero accettabile, per creare un “altro” contro cui definire la normalità. Il complottista ha bisogno del sistema per avere qualcosa contro cui ribellarsi, per trovare conferme alle sue teorie nella stessa ostilità che incontra.

È possibile che la verità, come spesso accade, stia da qualche parte nel mezzo. È possibile che esistano davvero cospirazioni e complotti, ma che non tutto sia una cospirazione. È possibile che le istituzioni a volte mentano, ma che non tutto quello che dicono sia una bugia. È possibile che la realtà sia più complessa di quanto le narrazioni ufficiali ci facciano credere, ma anche più semplice di quanto le teorie del complotto ci vogliano far pensare.

Ma fino a quando continueremo a ridurre questo dibattito a una questione di etichette, fino a quando continueremo a usare la parola “complottista” come un’arma per chiudere la discussione invece che per aprirla, non arriveremo mai a questa sintesi. Continueremo a vivere in un mondo diviso tra chi crede troppo e chi dubita troppo, tra chi accetta tutto e chi rifiuta tutto, tra chi si fida ciecamente del sistema e chi lo considera intrinsecamente corrotto.

Forse è arrivato il momento di superare questa dicotomia e di riconoscere che la verità, come sempre, è più complessa e sfumata di quanto le nostre etichette ci permettano di cogliere. Forse è arrivato il momento di smettere di usare la parola “complottista” come un insulto e di iniziare a usarla come quello che dovrebbe essere: una descrizione neutrale di qualcuno che crede nell’esistenza di complotti. Non di più, non di meno.

Dopotutto, in un mondo dove i potenti si incontrano regolarmente a porte chiuse per prendere decisioni che influenzano la vita di milioni di persone, dove le informazioni vengono classificate per decenni, dove gli interessi economici spesso prevalgono su quelli pubblici, l’idea che esistano complotti non è poi così irragionevole. Forse il vero folle non è chi crede nei complotti, ma chi crede che non esistano.

Lascia un commento